Lazio, l’ultima intervista di Vincenzo D’amico a Lazialitá – FOTOGALLERY

L’ultima intervista di Vincenzo D’amico a Lazialità è contenuta nel libro a lui dedicato, “La mia vita con la Lazio”. Nel volume, parte della collana storica di Lazialità, il campione del 1974, scomparso oggi, viene ritratto in tutte le sue sfaccettature, tra aneddoti, curiosità e storie in medite. Per ricordarlo nel giorno della sua scomparsa la redazione di Lazialità ripropone di seguito l’intervista e alcune bellissime foto contenute nel libro.

Parto a bruciapelo. Perché di Frustalupi si parla così poco?

“Hai ragione. Al di là di Giorgio che ha fatto quello che ha fatto, in quei due anni straordinari tutti sono stati all’altezza però, nessuno me ne voglia, se ci fosse solo un premio da dare ad uno di quella squadra lo darei senza pensarci a Mario Frustalupi. Da fuori non sembrava ma era un burlone di prima classe, divertente, ti prendeva in giro con classe, mai una parola fuori posto. Arrivò da una grande come l’Inter, nella quale aveva vinto uno scudetto e fatto una finale di Coppa Campioni. In una Lazio che era appena tornata in serie A si mise subito al servizio della squadra senza puzza sotto il naso. Fu ceduto perché lo considerarono finito. Andò al Cesena e la portò in Coppa Uefa, anni dopo portò la Pistoiese per la prima e unica volta in serie A. Anche lui ci ha lasciato troppo presto”.

 

Prima Maestrelli poi Re Cecconi, Bezzi, Ziaco. Sono molti quelli che ci hanno lasciato troppo presto. Hai mai pensato che c’era una maledizione sulla Lazio?

“No, non credo a queste cose, dico che è stata un’infelice combinazione. Forse è stato il pedaggio per aver vinto lo scudetto, sotto questo aspetto siamo la squadra insieme al Toro che ha pagato a caro prezzo la vittoria. Anche se il Torino almeno aveva vinto cinque scudetti”.

 

Sbaglio o tu non sei mai andato sotto la curva dopo un gol?

“Una sola volta, mi ricordo anche l’anno: 1978. Era morto un ragazzo, andai sotto il posto dove si metteva abitualmente per dedicargli quella rete. Ho sempre pensato che fosse una sceneggiata per arruffianarsi i tifosi”.

 

Una parola, un gesto che ti ha ferito l’anno dello scudetto?

“C’è stato, ma l’anno dopo. Guai a chi mi tocca Maestrelli, per me è stato come un secondo padre, ma non gli ho mai perdonato il fatto che nella prima in casa contro il Cesena con lo scudetto sul petto la mia maglia era sulle spalle di Badiani. Fui l’unico di quelli che lo aveva vinto a non scendere in campo con i titolari. Ho provato dolore fisico, è stata una cattiveria gratuita. Non hai idea di quanto mi abbia ferito quella cosa”.

 

So che anni dopo ti è successo di nuovo perché ero presente e ti ho visto con gli occhi lucidi...

“Ti riferisci alla festa del centenario? Mamma mia, che tristezza. Ero con mio figlio in tribuna quando iniziarono ad aprire le gigantografie dei calciatori in Tevere e in Curva Nord, a un certo punto mio figlio mi fa: “Papà, perché tu non ci sei?”. Non ho saputo rispondergli, mi sono sentito una “merdaccia”. Pensavo e penso che avrei meritato di esserci anch’io. Forse non sono bastate le 345 partite giocate nella Lazio, le cinque operazioni che ho subito per onorare al meglio la maglia biancoceleste, la volta che ho salvato dalla serie B la mia squadra, o la volta che l’ho salvata dalla C, o quando l’ho salvata dal fallimento convincendo i miei compagni a non mettere in mora la società per avere lo svincolo, o aver firmato in bianco pur di giocare ancora nella mia Lazio e altre cose che non voglio raccontare. Perché io no! Non riesco a spiegarmi perché io no”.

 

È vero che stavi per andare alla Roma?

“Mai nella vita! Ero appena tornato da Torino. Un amico che lavorava nella Roma mi chiamò per dirmi che mi stava cercando Dino Viola, il presidente giallorosso dell’epoca. Lo chiamai per educazione e per curiosità, mi disse che Liedholm e Falcao gli stavano rompendo le scatole da due anni perché mi volevano con loro e mi chiese se, nel caso la Lazio fosse stata d’accordo, io avrei accettato il trasferimento in giallorosso. Lo ringraziai per l’interessamento ma gli spiegai che ero tornato da Torino per giocare nella mia Lazio della quale mi sentivo una bandiera. Ci salutammo cordialmente. Mentre ero in ritiro a Sarentino, su “Il Tempo” uscì un’intervista di Viola nella quale diceva: “Alla Roma vorrebbero venire i migliori giocatori italiani e non. Si figuri che questa estate si era offerto anche una bandiera come D’Amico”. Fino a quel giorno ho sempre pensato che fosse un galantuomo, mi fece cambiare idea”.

 

Un tuo compagno di squadra sottovalutato?

“Michelino Laudrup, un fuoriclasse assoluto. Dopo Maradona il più forte straniero che abbia mai giocato in Italia. Parlano i fatti, basta vedere quello che ha fatto con la Juve, il Barcellona e il Real Madrid. Mi fece fare il gol più facile della mia carriera. Partì da centrocampo, saltò in dribbling mezza squadra, mise a sedere per terra il portiere e invece di tirare passò la palla al sottoscritto solo soletto davanti alla porta vuota. I primi tempi parlava poco, un po’ per timidezza un po’ per la lingua che non conosceva. Appena imparò l’italiano diventò uno “scassacavoli” gigantesco, non stava mai zitto e aveva sempre la battuta pronta. Del danese aveva ben poco. Un giorno non scendeva per la colazione, il mister mi mandò a chiamarlo, entrai in camera e lo trovai che stava dormendo sul materasso buttato a terra, non gli piacevano i letti con la rete”.

 

A proposito di stranezze, è vero che una volta hai fatto sesso tra un tempo e l’altro?

“Sì, è vero. Fu durante un’amichevole di precampionato. Non ti dico quando altrimenti si potrebbe incazzare la moglie di quel periodo. Anzi non la scrivere proprio (Sì, vabbe’, ndr)”.

 

Quanto ti dava fastidio quando dicevano che eri su di chili?

“All’inizio non me ne fregava niente perché non era vero, poi iniziai ad incazzarmi perché ero stufo di queste fregnacce. Il mio peso forma era 73 chili, in tutti gli anni che sono stato alla Lazio il peso massimo raggiunto è stato di 74 chili. Qualcuno scrisse che ero ingrassato perché mi piaceva mangiare come un disgraziato e da quel momento hanno iniziato a rompermi le scatole su questa storia. Soprattutto quando iniziava il ritiro, scrivevano sempre “D’Amico è tornato dalle vacanze con qualche chilo di troppo”. Una cavolata pazzesca, io mi mantenevo in forma giocando a tennis, una delle poche passioni che ho avuto oltre il calcio, prima di andare in ritiro partecipavo al torneo nazionale di tennis per calciatori, l’ho vinto per due anni di seguito, il primo a Grado e l’altro a San Remo, dubito che avrei potuto vincere quei due tornei se non fossi stato in condizioni di forma più che decenti. L’anno che andai a Torino, tornato dalle vacanze, passai le visite mediche. Pesavo 76 chili. Giocai un ottimo campionato, arrivai alla nazionale maggiore e nessuno mi ha mai rotto le palle. Quando tornai alla Lazio chiesi a Walter Gallone del “Messaggero” se mi faceva la cortesia di scrivere che ero sotto peso. Walter fu carino e restò al gioco. Uscito l’articolo da quel momento, giuro su Dio, tutti mi vedevano più secco e se giocavo una partita mediocre arrivavano puntuali le critiche al rovescio: “Per forza che ha giocato male, è troppo secco non si regge in piedi”. Pensa che una volta mi intervistò Enzo Tortora, persona seria e preparata come pochi, per “L’Intrepido” e la prima domanda che mi fece fu: “Di lei si dice che ama la dolce vita, che le piacciono un po’ troppo le donne e che ama particolarmente la buona tavola, tutte cose che non aiutano un atleta”. Ti rendi conto? Pure Enzo Tortora c’era cascato”.

 

Mi spieghi perché per Lazio-Vicenza ci furono 82.000 spettatori e per Lazio-Catanzaro invece quasi 40.000 mila e addirittura per Lazio-Varese appena 7.200 paganti?

“Ti posso rispondere per quella con il Catanzaro. Quella partita si giocò poco dopo il casino del calcioscommesse, molte persone dopo quel fatto si sono allontanate dagli stadi, non solo quelli laziali ma in tutta Italia. E ti dirò, dopo quello che era successo me ne aspettavo molte meno. Non ti so rispondere invece per Lazio-Varese. Tra le poche certezze che ho c’è quella che il tifoso biancoceleste nel momento del bisogno è il migliore, c’è sempre stato. L’unica volta che mi ha deluso fu quella. Quando entrai in campo non ci volevo credere, lo stadio praticamente vuoto, erano quasi più numerosi i tifosi del Varese! Pensai che fosse successo qualcosa fuori lo stadio, mi rifiutavo di credere che per una partita che dovevamo vincere a tutti i costi altrimenti andavamo in serie C ci fossero cosi pochi tifosi laziali a sostenerci”.

 

Rispondi a bruciapelo, hai tre secondi per ogni domanda: tra i compagni di squadra che hai avuto nel corso della tua carriera, nazionali comprese chi era…

 

Il più simpatico?

“Sicuramente Podavini”.

 

Il più buono?

“Filisetti, non sai cosa ha dovuto sopportare con Lorenzo”.

 

Il più taciturno?

“Forse Gigi Martini, parlava solo quando doveva parlare, non sprecava parole”.

 

Il più tirchio?

“Qui è dura. Diciamo che era una bella lotta, ma tirchi proprio no, diciamo parsimoniosi. In alcune occasioni erano anche splendidi”.

 

Il più caciarone?

“Magnocavallo, non stava mai zitto, una parlantina alla Fiorello”.

 

Il più antipatico?

“Qui non ho dubbi. Giuliano Terraneo, ma per distacco”.

 

Il più spendaccione?

“Anche qui ho una certezza assoluta: io. Non avevo rivali”.

 

Il più permaloso?

“Joao Batista e Franco Nanni. Franchino era straordinario, gli mettemmo il soprannome “l’ultima è la sua”. Guai a iniziare una discussione con lui, della serie “arrenditi sei circondato”, un toscanaccio verace. Chinaglia andava al manicomio”.

 

Il più cattivo?

“Quello che pensavo fosse cattivo per l’aspetto ma poi in fondo era il più buono era Petrelli, di una dolcezza infinita”.

 

La persona a cui hai voluto più bene?

“Fare una classifica è antipatico, diciamo Ziaco, Lovati, Pulici e Giordano. Di Renato ho già detto, Bob era straordinario, ogni volta che ci incontravamo gli dicevo sempre: “Mister, io e lei siamo la storia della Lazio, io il 49 per cento e lei il 51”. Puntuale arrivava sempre la stessa risposta: “Ciaparàtt, ma va a dà via el cu”. È stato un grande intenditore di calcio, classe da vendere educazione da imitare. Leale e sincero come pochi, una volta a Cacciatori disse: “Lo sa perché lei come me gioca sempre titolare? Perché è il classico portiere che in una stagione mi fa perdere due partite ma poi me ne fa vincere dieci”. Bob è sempre stato il mio punto di riferimento nella Lazio. La scarsa simpatia che ho nei confronti di Lotito deriva dal trattamento che riservò nei confronti del “mio” Bob. Provo grande affetto nei confronti di Felice, da tempo ho scoperto che la cosa è reciproca. Non ho mai dimenticato che quando arrivai in prima squadra Pulici fu l’unico a trattarmi come uno di loro e non come il ragazzino della Primavera. Me lo dimostrò con i fatti e di questo gliene sono grato ancora oggi. Di Bruno che posso dire, è mio fratello. Gli volevo bene come compagno di squadra, lo adoro come amico”.

 

Il più tontolone chi era?

“Moriggi. Era di una semplicità disarmante, non capiva mai se uno scherzava o faceva sul serio. Era il bersaglio preferito. Una volta, quando c’erano le panchine di legno nello spogliatoio, gli inchiodammo le scarpe con tanto di chiodi e martello. Un’altra volta tornò da Milano con una fiammante 1100 che non si poteva guardare, ci fece due palle così sulla bellezza di quella macchina, quando fece per andar via da Tor di Quinto trovò tutte e quattro le gomme a terra completamente sgonfiate. Non si incazzò nemmeno quella volta”.

 

Hai mai avuto un allenatore alla Al Pacino di “Ogni maledetta domenica”?

“Vinicio un po’ lo prendeva. Era molto passionale, quando serviva ci faceva mettere in circolo e tutti abbracciati dovevamo dire: “Chi si ritira dalla lotta è un gran fjo de ‘na…”. Se alla fine del primo tempo stavamo perdendo, nello spogliatoio iniziava a digrignare i denti e a urlare facendo la bava dalla bocca, nel vero senso della parola, non sto scherzando. Quando perdevamo una partita aveva un modo tutto suo di vendicarsi: nella leggendaria doppia seduta del mercoledì ci faceva – scusa l’espressione – “cacare sangue”. Pur essendo una persona con una sensibilità rara, quando si incazzava non ti dovevi avvicinare, ti staccava il collo. Però persona corretta e leale. Io, Bruno e Andrea Agostinelli lo amavamo”.

 

E allora perché è stato cacciato?

“Forse perché a qualcuno non piaceva? Se tu, Bruno e Andrea lo amavate chi poteva contare più di voi? Leggi la formazione di quell’anno e trai le conclusioni, io di noi non ne faccio”.

 

Un ricordo di Chinaglia?

“Aveva un modo tutto suo di dimostrare affetto. Un paio di volte, nell’anno dopo lo scudetto, mi chiese di fargli compagnia, andammo a casa sua e poi a passeggio a villa Pamphili. Attraversava un momento privato molto difficile, voleva isolarsi e mi chiese di andare con lui in ritiro già dal venerdì”.

 

Una frase che ti è stata utile nella vita?

“Non promettere quando sei felice, non rispondere quando sei arrabbiato, non decidere quando sei triste”.

 

La più grande soddisfazione da calciatore?

“Una che non riguarda le vittorie o le salvezze dell’ultimo minuto. Io e Maestrelli abbracciati che usciamo dal campo. Tommaso certi gesti li faceva solo con Giorgio. Nel salone ho una foto incorniciata di quel momento”.

 

Un allenatore che ti stava particolarmente simpatico o per il quale avresti giocato volentieri?

“Due, uno bravo l’altro simpatico. Rocco, quello bravo, mi aveva in grande considerazione. Una volta mentre mi riscaldavo in campo con Martini prima della partita, con la coda dell’occhio lo vidi che mi stava guardando parlottando con Rivera. Rientrando nello spogliatoio mi diede una pacca sulle spalle e disse: “Mi no credevo che un omo podesse far questo”. Oronzo pugliese, il mago di Turi, quello simpatico. Un matto scatenato, per incoraggiare i propri calciatori capitava spesso di trovarlo a correre sulla linea del fallo laterale come se fosse uno di loro, se qualcuno non faceva quello che gli aveva detto di fare prima della gara appena questo passava vicino la panchina gli dava una pizza tremenda sul collo. Sua una delle battute più belle in assoluto sul calcio, poi copiata e rivisitata da altri grandi allenatori: “Io sono bravissimo a mettere i giocatori in campo, il problema poi è che questi si muovono”. Se non sbaglio allenò anche la Roma. Lino Banfi si ispirò a lui quando interpretò Oronzo Canà”.

 

A proposito di Roma, mi dici che c’entrava Ciccio Cordova con la Lazio?

“Non mi toccare Cordova, un grande calciatore con personalità da vendere. Quando era in giornata palla al piede in Europa pochi come lui. L’unico vero ottavo Re di Roma, altro che Falcao. Non fu accolto molto bene da alcuni senatori dello spogliatoio, voleva fare il leader in una squadra piena di leader, si scontrò più di una volta con Martini e Wilson, seppe tenergli testa e vi garantisco che non era facile. Peccato che arrivò con qualche anno di troppo sulle spalle”.

 

Mi spieghi come ha fatto il tuo compagno di squadra Garella a vincere due scudetti?

“Impossibile, anzi inspiegabile. Ti giuro su quello che ho di più caro che durante la settimana era un fenomeno, poi la domenica ne combinava una a partita. A Tor di Quinto, finito l’allenamento, Vinicio metteva dodici palloni a un paio di metri dalla linea dell’area di rigore simulando altrettante punizioni. Con Claudio facemmo una scommessa: se avesse preso meno di quattro gol avrebbe vinto lui. Dopo un po’ abbiamo smesso altrimenti ci toglieva anche le mutande. Le parava tutte! E a tirare quelle punizioni, oltre al sottoscritto, c’era gente come Giordano, Clerici, Cordova e Totò Lopez”.

 

Sei a metà strada. Se ti guardi indietro su un’ipotetica bilancia pesa di più il piatto delle gioie o quello dei dolori?

“Diciamo che ho avuto dalla vita la possibilità di gioire molte volte ma per ottenere questo ho dovuto attraversare spesso la porta del dolore”.

 

Tempo fa mi dicesti di avere gravi problemi alle anche e alle ginocchia e che hai difficoltà nel camminare. Tutto questo per giocare a pallone. A conti fatti, ne è valsa la pena?

“Assolutamente sì. Ho fatto quello che sognavo da bambino, ho viaggiato in lungo e in largo, ho riso e pianto, ho vinto e perso, ho giocato accanto e contro calciatori che hanno scritto la storia del calcio, è stata una vita intensa. Il dolore è il conto che sto pagando per tutto questo. Sì, ne è valsa la pena!”

 

Oggi Vincenzo D’Amico è?

“Una persona serena che non vede l’ora di diventare nonno di una bella nipotina. E nonostante tutto quello che abbiamo detto, mi sento ancora uno che è stato, è e sarà una bandiera della Lazio. La mia Lazio!”

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